Is this the Roger we really want?

E’ vero. L’ultimo lavoro musicale di Roger Waters è uscito “giusto” qualche mese fa (maggio 2017) e scriverne adesso potrebbe sembrare alquanto anacronistico. Ho però deciso di prendere il mio tempo, giusto quanto serviva per permettere a “Is this the life we really want?” di far penetrare internamente ed interamente le sue 12 tracce in note, testi ed effetti sonori dai riverberi pinkfloydiani.
Partiamo sottolineando un aspetto essenziale: Roger Waters è un “genio” (senza esagerare e senza timore di smentita alcuna) ed un maestro. Come tale, come ogni “grande” che si rispetti, divide. Inevitabilmente, puntualmente. Divide così tanto da scindere a metà perfino il proprio “seguito” di fan affezionati e veneranti. E’ così, punto. Se ciò non fosse accaduto non sarebbe stato Waters, non sarebbe stata la mente che si celava dietro ogni produzione musicale dei “Pink Floyd”.
Inutile dire quanto sarebbe stato impossibile fare di meglio di “Amused to death” (1992). Anche per gli dei dell’olimpo musicale è difficile superare se stessi. Dopo più di vent’anni di apparente silenzio e dopo aver girato l’ottimo lungometraggio “Roger Waters: the Wall” (2014), il buon Waters è tornato alla ribalta. Nel bene e nel male (anche e soprattutto storico).
Diciamolo: “Is this the life we really want?” in Italia è stato accolto non solo “in sordina” ma anche nel peggior modo possibile a seguito della “causa” (più mediatica che altro) rivoltagli dall’artista Isgrò per avergli “copiato” la copertina dell’album. Nonostante Waters abbia un legame affettivo con il nostro Paese (nel 1944 il padre Eric venne ucciso in battaglia dopo lo sbarco ad Anzio), l’Italia è stata pronta a silurarlo senza troppi fronzoli. Com’è d’uopo per un paese culturalmente involuto. Basta dare un’occhiata alle classifiche mensili dei dischi più venduti (o presunti tali).
Quale giudizio per “Is this the life we really want?”: musicalmente graffiante, digeribile a poco a poco poiché drammatico e pessimista sia nei testi che nelle note, cifre espressive del pensiero del musicista. Sappiamo fin troppo bene che Roger Waters sia geniale quanto apocalittico nei confronti di un Mondo ormai abbandonato a se stesso. I temi che principalmente accompagnano le tracce del disco non sono una novità per i seguaci di Waters: le guerre, le distruzioni, una razza umana sempre verso un’estinzione già annunciata. “Broken bones”, in special modo, è un annuncio generazionale: i giovani dovrebbero bypassare gli insegnamenti dei padri e dei fratelli maggiori, giacché nulla hanno fatto per migliorare il mondo in cui tutti viviamo. Per Waters la Seconda guerra mondiale non ha insegnato nulla, in considerazione del fatto che sono cambiati solo gli attori politici e le armi (i rumori dei droni in “Deja-vù”).
L’unica salvezza per l’ex bassista dei Pink Floyd resta l’amore, concepito non come valore assoluto e relativo ma come sentimento intimistico e quotidiano: solo le buone e piccole azioni che compiano ogni giorno potrebbero salvarci dall’abisso. O forse no.
Per questo “Is this the life we really want?” resta un album graffiante, ascoltabile e digeribile per pochi. Ma va bene così. Anche se, tutti i detrattori di questa ultima fatica musicale, dovrebbero chiedersi: se anche la musica di Roger Waters non va più bene, non è “ascoltabile”, cosa rimane per e di questa epoca?
Allora, noi italiani, ci meritiamo davvero i Talent Show. Noi, come razza umana, meritiamo davvero i tormentoni stagionali, dai Shakira ai Luis Fontes.
Per questo dico: sì, “this is the Roger we really want!”

Marco Marangio

giornalista pubblicista, dottore in Lettere Moderne, amministratore del blog Prima Pagina, autore di "Percorsi" (Albatros Il Filo, 2010) e di "Matteo Renzi - La parola sono io (Effigi editore, 2018)

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