Berlusconi, un guitto senza guizzo
Gli unici milioni veri, in piazza San Giovanni, sono Alfredo
Milioni e i suoi cari, giunti peraltro sul posto con venti
minuti di ritardo a causa dei giudici comunisti col ritratto di Che
Guevara. Per il resto, la ripresa aerea ha fatto giustizia
delle cifre sparate dal ballista di Arcore e dai suoi turiferari: poche
decine di migliaia di persone, oltretutto recintate da ogni lato per
sembrare di più. Una pena. Lui, poi, una noia mortale. Il Grande
Comunicatore pare il vecchio guitto di Alberto Sordi nel
finale di "Polvere di stelle", costretto a mendicare particine in
teatri di periferia e a riesumare vecchie gag di repertorio per
strappare pallidi sorrisi di circostanza e commiserazione.
Nemmeno le menzogne gli riescono più come una volta: ai bei tempi le
improvvisava su due piedi, nuove di pacca. Sempre balle erano, ma almeno
fresche. Quelle di ieri, lette dal discorso preparato con Gianni
Letta (sai che allegria), puzzavano di muffa. Già sentite
mille volte. Il modernariato della balla. Il comunismo, le toghe rosse,
lo spionaggio, lo Stato di polizia, il regime delle sinistre,
l’oppressione fiscale di Prodi, l’Amore che vince
sull’odio. Mancava solo l’eroe Mangano. Mai un guizzo,
una trovata, uno slogan che funzionasse. Sul palco, quello sì
affollatissimo all’inverosimile, età media settant’anni, un grande
sferragliare di dentiere, cateteri e cinti erniari, oltre a smodati
quantitativi di silicone e botox ben oltre i limiti fissati dall’Unione
europea.
Tant’è che i pochi candidati sotto i 50 vengono presentati
dall’attempato gagà brianzolo come "ragazzi". A un certo punto riesuma
addirittura il discorso della discesa in campo del ‘94 ("America’, facce
Tarzan!"), omettendo ovviamente le frasi contro la prima Repubblica e
in difesa di Mani Pulite: "La vecchia classe politica è stata
travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi
governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema del
finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e
incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una
nuova Repubblica".
Parole che stonerebbero accanto ai cori contro Di Pietro,
Santoro, toghe rosse e altri bersagli dell’odio del
Partito dell’Amore. Poi la gag del Contratto con gli italiani, stavolta
recitato dai tredici aspiranti governatori presenti (Zaia,
l’unico normale, non c’era), per via della mancanza della scrivania di
ciliegio e del suo custode Bruno Vespa, rimasto negli
studi deserti di Porta a Porta a rodersi il fegato per il black
out preelettorale proprio mentre ci lascia Pietrino Vanacore.
Le domande alla folla "Volete voi…?" sono copiate dal Duce, che almeno
le piazze riusciva a riempirle e non pensò mai all’inno "Meno male che
Benito c’è".
Poi "i miracoli di Bertolaso": tre applausi. Il piano
casa: due. Il crollo di furti e rapine: sguardi interrogativi. "L’amico Cota
che in Piemonte collegherà l’Atlantico al Pacifico": occhi
smarriti. I "400 mafiosi arrestati", tranne quelli rifugiati in
Parlamento e al governo, che si toccano sul palco. L’unico sussulto è
quando arriva Bossi. Al Tappone, sempre
spiritoso, dice "noi moderati". Poi l’Umberto pronuncia una frase da
leader dell’opposizione, che infatti non è mai venuta in mente a uno del
Pd: "Sono uno dei pochi che non ha mai chiesto una lira a Berlusconi".
Gelo sul palco, freddo polare in piazza. Bossi tenta ancora di spiegare
il misterioso concetto di "famiglia trasversale". Che alluda al
triangolo Silvio–Veronica–Patrizia?
Meglio non approfondire. Lo portano via. La gente comincia a sfollare.
L’anziano guitto tenta di trattenerla con la zampata del teleimbonitore
(“Ai primi cinque che chiamano per la batteria di pentole, ci mettiamo
su tre padelle antiaderenti!”), improvvisata sul momento: "Nei prossimi
tre anni vogliamo anche vincere il cancro". Verrà abolito con un decreto
interpretativo: basterà chiamarlo varicella. Perché l’Amore vince
sempre, ma ogni tanto pareggia.
fonte "Il fatto Quotidiano"