Duole dirlo. Roberto Saviano è divenuto “pop”. Fin troppo. Quando, da letterato, mi fermo a riflettere sul corso della cultura italiana e degli esponenti italiani che essa propone, il mio pensiero corre, primo fra tutti, sul nome dello scrittore napoletano. Sia chiaro: ho quasi tutti i suoi libri, l’ho sempre stimato e continuerò a farlo. Credo che il suo esempio, benché maledetto spesso anche da se stesso, sia stata una testimonianza coraggiosa di quell’Italia che non si piega mai di fronte ad alcun problema, di quell’Italia che è libera di pensare, nonostante le contraddizioni della società e dei luoghi di potere. La letteratura italiana soffre, attualmente, sotto tutti i punti di vista: qualitativi, quantitativi, di originalità e di spessore culturale. Per questo reputo Roberto Saviano uno dei pochi scrittori ed intellettuali che molto hanno da offrire ad un mondo così depauperato dalla sua funzione pensante.
E’ giusto che l’autore di Gomorra esponga i propri pensieri politici sull’Italia: un intellettuale del suo calibro non può fare altrimenti. I cittadini hanno bisogno di una voce come la sua. Benché non sia stato propriamente d’accordo sulla sua posizione riguardo Fidel Castro (giacché ritengo enormemente difficile leggere la storia cubana nelle sole gradazioni di “bianco” o “nero”, di Castro come “salvatore” o come “tiranno dittatoriale”), negli altri casi ho sempre atteso con ansia di conoscere il suo pensiero sui temi di attualità. Tanto che sono stato negativamente colpito quando, di recente, il sindaco di Napoli De Magistris ha manifestato il suo “j’accuse” verso Saviano riguardo la criminalità locale napoletana. Tale grammatica narrativa era solita degli esponenti del centro destra nell’ultima era berlusconiana. Molti di noi si ricordano la querelle mossa dal presidente lombardo Maroni.
Eppure, in tutto questo modello autorevole e stimabile che Saviano ha costruito con sacrificio nel tempo, v’è un lato molto discutibile. Un esempio lo si può trovare nell’ultima apparizione tv con “Imagine”, il programma nel quale ha illustrato i grandi momenti dell’anno 2016. In qualità di intellettuale, Roberto Saviano è uno dei pochi a permettersi una tale analisi, grazie ad uno story telling ben costruito. Nota dolente è stata l’ospitata del videomaker Rovazzi, noto all’Italia quale ideatore del video rivelazione dell’anno “Andiamo a comandare”. Per quanto ciò posso corrispondere a verità, ossia che il suddetto video abbia generato un vero e proprio caso attorno a sé, una domanda sorge spontanea: per Roberto Saviano era realmente ed essenzialmente necessario accostarsi a tal Rovazzi? Nulla da dire, non in questa sede almeno, contro il videomaker che non ha potuto non trarre giovamento dall’accostamento con lo scrittore. Non a livello di immagine, quanto di qualità della stessa. Molto da dire, invece, ha Saviano. Egli, proprio in qualità della sua storia personale e culturale, ben poco ha da condividere con Rovazzi. Sono due mondi inconciliabili: Rovazzi non è De Andrè, Saviano non è Fabio Volo. Per fortuna. Duole affermarlo, eppure Saviano ha recentemente accostato la propria immagine ad esponenti della cultura più pop e commerciale che l’Italia ha da offrire. Essendo il “pop” italico la connessione più immediata alla lingua unidirezionale del consumismo più accanito, quindi vicino ad una cultura quantitativa e non qualitativa, è chiaro che Roberto Saviano nulla avrebbe a che spartire con tale sistema.
Lo scrittore, proprio per la sua essenza, quella stessa e nobile che lo ha portato alla ribalta, dovrebbe non solo splendere di luce propria, ma sopratutto evitare promiscuità culturali così contrapposte al tipo di letteratura che egli testimonia.
Purtroppo, la cultura letteraria italiana è così piegata su se stessa, così priva di contenuti, che i pochi esponenti che con dignità cercano di operare per l’onorevole missione della cultura per eccellenza, non dovrebbero impiegare il proprio intelletto in tal senso. L’Italia ha già perso i migliori scrittori, quando non ha assassinato gli altri, come Pier Paolo Pasolini. Non perdiamo quelle poche opportunità che restano.