Genere: Drammatico
Attori: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Andrea Riseborough, Amy Ryan
Regista: Alejandro González Iñárritu
Anno: 2015
Durata: 119 min
Musiche: Antonio Sanchez
Voto: ***
Riggan Thomson (Michael Keaton), dopo un fulgido passato da star del cinema, interpretando l’audace supereroe Birdman, decide di rilanciare la sua carriera passando da Hollywood a Broadway. Nei giorni precedenti alla prima dovrà vedersela con il suo incontenibile ego, con i problemi dietro le quinte, con la famiglia.
Occhi laser ed una “S” sul petto, lunghi capelli biondi ed un elmo celtico, muscoli super pompati, armature e costumi, sono questi gli eroi del terzo millennio. Ma eroi che compiono atti coraggiosi e straordinari per se stessi. Eroi della propria fama e gloria, eroi per evitare bancarotte, eroi del successo di pubblico, macchine per fare dollari.
Hollywood, come un abile affarista, ha in mente due cose: ingozzarci di remake a più non posso e partorire, come in una catena di montaggio chapliniana, ogni supereroe che sia mai apparso sulla carta stampata (ed igienica) dagli anni ’40 a questa parte. Arriverà dunque anche il momento di “Shpalman”? Ce lo auguriamo tutti.
Il regista Iñárritu ci racconta proprio questo, la crisi e la mancanza di idee che affligge il panorama cinematografico americano. Un cinema evanescente, di piacere effimero.
Il personaggio principale, un ex supereroe del grande schermo, prova a spogliarsi di quei panni colorati e piumati che lo resero famoso, per dimostrare e ricordare a se stesso, la sua bravura, la sua passione attoriale.
Una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde che lotta tra la fama e la fame.
Non a caso la scelta di interpretare Riggan Thomson verte su Michael Keaton, l’eccezionale Batman degli anni ’90, con alle spalle il grande successo dei film burtoniani: le assonanze sono evidenti. Questa la metafora principale che il film traghetta fino allo spettatore. Metafora che in verità arriva come un montante, il punto di forza del film.
L’opera innesca una riflessione: i cinecomics ci stanno sfuggendo di mano?
Scavando nel passato affiorano in mente gli anni ’20 e ’30 quando Hollywood alimentava il braciere horrorifico traendo ispirazione dai capolavori letterari da Poe, Stoker, Shelley a Lovecraft. Anche all’epoca dunque l’arte cinematografica si nutriva di serialità (si pensi a “Frankenstein” e a “La moglie di Frankenstein”) ma una serialità del tutto differente perché confinata all’interno della sala. Il rischio oggi è di eccedere in questo e varcare quel confine, con un intreccio tra trame e film non giustificato.
Allungare il brodo a qual scopo? Il cinema è anche sintesi, il difficile è raccontare una storia, trasmettere emozioni e messaggi con un modico metraggio.
La sensazione di Iñárritu è che “l’autentica finzione” si sta dissolvendo per mancanza di idee originali sia sul palcoscenico che in platea, è l’era dello spettacolo facile, che accontenti le masse.
Il film è girato con un fittizio e magistrale piano sequenza che fa balenare in mente il prodigio di Sokurov, “Arca Russa”, uno tra i più bei film russi in piano sequenza.
Film dunque molto interessante e riflessivo, ricco di citazioni fumettistiche, con una colonna sonora jazz azzeccatissima.
Tuttavia si notano a tratti piccole sbavature nella sceneggiatura: nella scrittura di alcuni personaggi. La pellicola ha le spalle troppo cariche di temi, a volte solo accennati, che appesantiscono inutilmente la scrittura, i dialoghi e soffocano lo spettatore.
Iñárritu non riesce a fare a meno di questo “peccato originale”, come in “21 grammi” e “Babel”, immagini dense e tozze. La carne al fuoco è davvero tanta: la recitazione, il cinema, il teatro, la critica, i giornalisti, i fans, i social network.
Vincitore di quattro premi oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia.