C’è ancora speranza per il cinema italiano? Probabilmente si. Era giusto lo scorso anno quando il “Racconto dei racconti” ha timidamente fatto l’ingresso nelle sale cinematografiche. Diretto magistralmente da Matteo Garrone, la pellicola ha dimostrato come il genere fantasy potesse anche essere prodotto nella nostra penisola senza avere l’influenza o il manierismo delle eco di Hollywood o di Peter Jackson. Solo pura originalità della rappresentazione narratologica. Per questo “Il racconto dei racconti” resta una piccola perla unica e rara nel panorama italiano.
Gabriele Mainetti, in questo 2016, trova invece il coraggio di addentrarsi nel genere super eroistico. In un periodo in cui gli spettatori sono ormai ammorbati dal bipolarismo fumettistico di Marvel e DC, bombardati da “Civil War” e “Batman Vs Superman”, Mainetti decide di rompere gli schemi e di tentare di sviluppare una storia diversa e, anche in questo caso, originale.
Ci riesce? Si e nel migliore dei modi. Innanzitutto grazie ad un cast d’eccezione: Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti) e Luca Marinelli (lo Zingaro) svolgono rispettivamente i ruoli di protagonista ed antagonista. Benché questa dicotomia potrebbe sembrare già nota e banale, il suo svilupparsi all’interno del mondo (Roma) circostante architettato dal regista rende il tutto nuovo ed estremamente “untold”. Se l’acquisizione dei poteri da parte del protagonista è l’unica parentesi fantastica, tutto il resto è immerso in una connotazione drammaticamente reale. Il background attorno cui si svolgono le vicende è forse uno dei più bassi e tristi mai raccontati, eccezion fatta per la serie “Gomorra”. Criminalità, sangue, malavita. Questo l’humus che presenta e gradualmente evolve i personaggi della storia. Da un lato Santamaria, piccolo criminale, sociopatico, spigoloso sia psichicamente che fisicamente; dall’altro Marinelli, criminale anche lui ma quasi ai vertici. Due facce della stessa medaglia che, volendo uscire entrambi dallo squallore in cui vivono, prenderanno irrimediabilmente strade differenti. Enzo Ceccotti è un anti eroe per eccellenza, lo Zingaro un folle e schizzato malavitoso che ambisce a scalare i vertici delle organizzazioni. La differenza sostanziale che caratterizzerà gli interpreti sarà l’utilizzo del proprio potere da parte del protagonista e gli incontri che faranno.
Ciò che cattura di “Lo chiamavano Jeeg Robot” è l’ambiente volutamente sporco entro cui si svolgono le vicende narrative. Non solo la scenografia riprende interni fatiscenti della Roma di borgata più degradata, ma sono sporchi anche i figuranti in scena. L’animo è violento, crudo e dedito al perseverare nel male. Mainetti scardina in questo modo gli stereotipi che si sono subiti fin troppo dei super eroi, partendo proprio da Santamaria che, solo verso l’epilogo, riesce ad ergersi minimamente dal fango sociale ed esistenziale in cui vive. Lo storytelling è una completa metafora della società odierna, non solo romana. Il villain è un italiano medio: viziato, egocentrico, narcisista ed amante dei prodotti televisivi e musicali dell’Italia più consumistica. A tal proposito è bene sottolineare come l’intera pellicola sia disseminata di richiami “vintage” che offrono più di qualche citazione: anzitutto dal titolo, pretesto ben strumentalizzato per connotare le qualità dell’eroe agli eroi di Go Nagai (senza tralasciare che l’uso dell’imperfetto richiama non poco Trinità di Bud Spencer e Terence Hill); le canzoni canticchiate e performate dallo Zingaro, che variano da Anna Oxa alla Bertè; ai poster appesi nella tana di Marinelli come “Buona Domenica” e “Tv Sorrisi e canzoni”. Tutto questo insieme non scende mai nel nostalgico, ma anzi viene reinterpretato dal regista in veste di richiamo a quello che potrebbe essere definito e ricordato come il periodo italiano più fertile e promettente, in netto contrasto con l’aridità culturale del presente.
Tutti questi aspetti, vengono ben sviluppati con uno stile che richiama Nolan, per quanto riguarda la visione reale ed umana dell’evoluzione dei personaggi, e Tarantino, per il felice passaggio tra momenti ironici ed estremamente violenti. Proprio questa dicotomia permette al regista di poter attingere al genere noir e creare qualcosa di veramente eclettico ma eterogeneo in tutte le sue forme. Qualora si volessero trovare delle pecche, anche minime, sono da ricercare nello stereotipo della presentazione dei personaggi malavitosi napoletani.
Per il resto, il film merita non solo di essere visto ma sopratutto di essere valorizzato appieno. Se sia un capolavoro solo il tempo potrà deciderlo. Frattanto, pubblico e critici sono abbastanza concordi sul fatto che è una delle pellicole più originali degli ultimi tempi.
Speriamo un po’ tutti in Mainetti, soprattutto dopo le numerose nomination ai David di Donatello. Che sia il “cuore e acciaio” del cinema italiano?