Noi siamo legati ad una triste fede che ci sgomenta, e che si chiama il vero; senza che noi siamo per questo filosofi razionali. Siamo come il prode Anselmo, che credette al mare solo dopo di averlo assaggiato. I nostri scritti nascono dai fatti, sono misurati con il metro della realtà che non ha la flessibilità del régolo lesbio; non sono frutto di ispirazione; non c’è una Musa nella nostra mitologia; tutt’al più tre Parche dalle minaci cesoie, la censura, il redattore capo, e lo sbadiglio del lettore.
Così Paolo Minelli , inviato leggendario per la “Stampa”, spiegava in un libro pubblicato nel 1930 con il titolo “ Questo mestieracccio”, quanto difficile fosse la vita da giornalista sempre alla ricerca di fatti da raccontare nel rispetto della verità. In realtà raccontare la verità per i giornalisti del regime non significava raccontare qualsiasi cosa accadesse ma piuttosto, secondo Pavolini , “saper scegliere, nei dati offerti all’osservazione del vero, quello che si può dire e quello che non si può”. E’ evidente come le parole del giornalista rispecchiassero anche la volontà del Duce che fin dalla sua salita al potere, nell’ottobre del 1922 a seguito della marcia su Roma, aveva fatto della stampa una delle sue armi migliori. Memore della sua carriera giornalistica che lo aveva visto direttore dell’Avanti, Mussolini era convinto che “fra tutti i prodigi della nostra civiltà, forse troppo meccanica, il giornale –tenesse- il primo posto”. Insieme alla nascita del sindacato dei giornalisti, Mussolini fondò una scuola per istruire le nuove leve che avrebbero , per citare Enzo Forcella studioso dei mass media , costituito la generazione dei “fratelli maggiori” ben devota al Duce . Presso la facoltà di Scienze Politiche a Perugia istituì anche una cattedra di storia del giornalismo il cui titolare ,Paolo Orano, propinava ai suoi alunni insegnamenti del tutto distorti che esaltavano la disciplina e l’obbedienza come le uniche qualità che un buon giornalista deve avere per salvare la società dalla frana sociale. L’insegnamento di Orano divenne un imperativo per tutti , persino per quei giornalisti della generazione “dei padri” che erano cresciuti nella stampa libera della metà dell’ottocento e che ,con l’avvento delle leggi fascistissime del 1925, furono obbligati ad iscriversi all’albo dei giornalisti e di conseguenza ad appoggiare il fascismo e la politica di Mussolini. Se per alcuni appoggiare il Duce era divenuta una scelta obbligata, per altri ,sebbene la loro iniziale incredulità, “il fascismo era l’unica soluzione alla crisi europea, la <<terza via>> per citare Emilio Gentile- “fra capitalismo e comunismo verso un mondo migliore, la formula per realizzare una <<politica dell’umano>>. Essi credettero che il nuovo Stato totalitario ,trionfando ovunque in Europa, avrebbe “ risolto il problema delle masse , sanato le ingiustizie e i conflitti sociali senza sovvertire i rapporti di classe e posto fine all’alienazione dell’uomo nella società contemporanea.” E per questo furono disposti a pagare il prezzo che il fascismo chiedeva “la distruzione della democrazia liberale e del sistema parlamentare – per reintegrare l’uomo nella sicurezza tribale della comunità sollevandolo dall’inquietudine dell’autonomia , della responsabilità individuale e della libertà”. Iniziò, a partire soprattutto dal ’26 , una dura fase di epurazione che coinvolse ogni redazione italiana con lo scopo di eliminare tutti coloro che professavano idee antifasciste e che quindi avrebbero potuto “nuocere allo Stato”. I responsabili dell’epurazione, Amucci e Augusto Turati, agirono con estremo rigore e trasformarono la libera opinione dell’Italia nella libera opinione di Mussolini. Al termine della scrupolosa analisi risultarono iscritti all’albo solo 1664 giornalisti professionisti e 83 praticanti che si piegarono ,con estrema codardia, ai voleri del regime . Tra i più importanti ricordiamo Corrado Alvaro che abiurò al manifesto crociano per diventare una delle firme più apprezzate della “Stampa”, ma anche Emilio Cecchi ,Marino Moretti , Giovanni Ansaldo che dopo essere stato una firma di punta del “ Lavoro” di Genova divenne il direttore del “Telegrafo”( il quotidiano di Livorno di proprietà della famiglia Ciano). Per non parlare di Mario Missoroli che è sicuramente uno degli esempi di trasformismo più clamoroso. Missiroli era stato un acuto osservatore del fenomeno fascista agli inizi degli anni venti e era politicamente orientato verso sinistra tanto che scrisse , dopo il delitto Matteotti , una serie di articoli con cui accusava Mussolini e i fascisti di essere stati i mandanti dell’omicidio. Ma bastò poco per far cambiare idea al direttore che ,preso atto della nuova situazione venutasi a creare nel paese a seguito della svolta che aveva posto fine al regime liberale, mutò atteggiamento manifestando la sua totale adesione alla dittatura. Entrato nell’albo dei giornalisti prese la tessera del partito e fu assunto dal “Messaggero” dove iniziò per lui una brillante carriera fatta di esaltazione del Duce , di appelli al valor di patria e di totale opportunismo . Atteggiamento opposto fu invece quello di Mario Borsa . Giornalista liberaldemocratico della generazione dei “padri” , condusse una vigorosa battaglia contro il fascismo e la subordinazione della stampa italiana ai voleri mussoliniani. “Era la mia vita e la mia anima” così parlava del suo lavoro e della libertà di stampa per cui tanto si era battuto anche dopo la pubblicazione del suo libro nel 1925 “ La libertà di stampa”. Borsa accusa non solo il fascismo come istituzione ma anche la borghesia e la stampa italiana entrambe responsabili dell’ascesa al potere di Mussolini. In questo senso Borsa scrive : “la stampa italiana ha taciuto troppe cose e troppo a lungo. Si può dire che il pubblico abbia avuto appena una vaga e imperfetta idea di tutto ciò che è avvenuto nel 1921 e 1922. Le purghe di olio di ricino, le randellate, le spedizioni punitive, i bandi, le distruzioni e gli incendi delle cooperative, delle Camere del Lavoro, delle società operaie , si consumavano nell’ombra talora nell’appoggio delle autorità e trovavano appena cenni fuggevoli , attenuati, deformati nella cronaca dei nostri maggiori giornali . La stampa italiana aveva disertato il campo” Borsa è stato uno dei pochi ad essere rimasto “fedele a se stesso” e fedele ai valori del suo lavoro.