Matteo Renzi non ce la fa. Non ce l’ha fatta la mattina del 5 dicembre 2016 e fallisce nuovamente il 5 marzo 2018. Fallisce su due punti: il primo è quello più evidente, ovvero la disfatta elettorale/referendaria; il secondo è l’attaccamento alla poltrona.
Quando poco più di un anno fa disse «se perdo il referendum lascio la politica» ha mantenuto la parola, ma solo a metà giacché ha rassegnato le dimissioni da Presidente del Consiglio ma non da segretario.
Ora, a seguito della nefasta debacle elettorale, dopo essersi rintanato per quasi due giorni ritardando le dovute dichiarazioni post elettorali, promette nuovamente: «lascio la direzione del partito». Ma…
Con Renzi non è mai così chiaro, né semplice. Poiché, prima di lasciare il PDr (Partito di Renzi) ha affermato che vuole indire una direzione nazionale del partito, all’interno della quale indicare un potenziale successore. Successore che dovrà poi competere all’interno delle proverbiali primarie democratiche. Quindi il boyscout di Rignano ha inventato una nuova modalità dimissionaria: le dimissioni postdatate. Si dimette. Ma non ora. Giusto fra un po’. Il tempo di riordinare (si fa per dire) le gerarchie renziane all’interno del PD.
Oltretutto, durante la conferenza stampa, si è assistito ad un Renzi quanto mai tronfio, arrogante. Come se lo stesso avesse raggiunto un ottimo risultato elettorale. Come se finora non avesse fatto altro che vincere tutte le sfide e tutti gli schieramenti. Il Partito Democratico è, ad oggi, il partito più devastato della neo nata «terza repubblica». Eppure Renzi non tarda a ripresentarsi in tutta la sua saccenza, supponenza e beata ignoranza. Per caso vi ricorda qualcuno?
Il tutto può sintetizzarsi con la frase pronunciata da Marco Travaglio ad «Otto e mezzo»:
Gruber a Travaglio: “Ma Renzi s’é dimesso o non s’é dimesso? Perché oggi non s’é capito“.
Travaglio: “Io oggi mi aspettavo che entrasse l’infermiera con la camicia di forza“.
Tant’è.